Collegio Arbitrale costituito da:
Dott. Mario D’Antino (Presidente) – Ing. Arturo Varzi (Arbitro) – Ing. Francesco Dattilo (Arbitro)
2. Procedendo all’esame del merito della controversia, quale risulta dai quesiti arbitrali, il Collegio affronta la questione centrale riguardante le opposte domande delle parti volte ad ottenere la risoluzione del contratto di appalto, stipulato in data 9 dicembre 2004 (n° 215 di rep,) in danno dell’altra parte per inadempimento alle obbligazioni assunte.
Invero, a fronte della domanda dell’impresa attrice contenuta nell’atto di accesso arbitrale notificato in data 19 aprile 2007 per ottenere la pronuncia di risoluzione del contratto per fatto e colpa del committente, la Comunità Montana ha proposto domanda riconvenzionale, con l’atto di resistenza, per la risoluzione del contratto in danno della ditta appaltatrice, risoluzione che era già stata oggetto del provvedimento deliberativo n. 80 del 12 giugno 2007 dell’organo di Giunta.
Non vi è dubbio che gli opposti addebiti rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, in quanto nelle vicende contrattuali dell’appalto in argomento, entrambe le parti – Amministrazione committente e privato appaltatore – agiscono in posizione paritaria, e solo in ben determinati casi alla pubblica Amministrazione è riservato dalla legge un potere di autotutela che incide sul rapporto di diritto privato in corso tra le parti.
In particolare, in presenza di determinati presupposti sostanziali (frode, grave negligenza o contravvenzione agli obblighi e alle condizioni stipulate), l’Amministrazione committente può conseguire la risoluzione del contratto di appalto per inadempimento dell’appaltatore esercitando il potere di autotutela dichiarativa che le è attribuito dagli artt. 340 e 341 della legge n. 2248 del 1865 All. F, mediante un atto unilaterale della propria volontà il quale si attua, pur nell’ambito di un rapporto privatistico, secondo l’opinione dominante in dottrina e giurisprudenza, sotto forma di provvedimento amministrativo (Cfr. Cass. 19 maggio 1972 n. 1531; Cass. 8 aprile 1976 n, 1224 ; Cass. 22 settembre 1984 n. 4819; Cass. 5 Settembre 1986 n. 5432 ; Cass. 3 novembre 1986 n. 6419).
La suddetta facoltà di recesso irreversibile dell’ente pubblico committente costituisce non già una ipotesi di recesso unilaterale dal contratto ma, al contrario, rappresenta una forma di autotutela autonomamente e originariamente attribuita all’ente pubblico, il cui giudizio non è sindacabile dal giudice ordinario mediante statuizioni che presuppongano o realizzino il mantenimento o il ripristino del contratto autoritativamente risolto, o ne impongano, direttamente o indirettamente, l’esecuzione da parte dell’ente pubblico committente, poiché tali statuizioni si risolverebbero nell’annullamento o nella revoca dell’atto di esercizio del potere.
Compete, invero, al giudice ordinario e quindi al Collegio arbitrale, il potere di verificare, a posteriori, la legittimità o liceità del provvedimento per ciò che attiene alla sussistenza e alla rilevanza del presupposto a base del provvedimento, o alle modalità di emanazione. Nel caso in cui riconosca il provvedimento stesso privo di sostanziale giustificazione o comunque viziato, il Collegio, pur non potendo annullare il provvedimento medesimo, ne può ben dichiarare, attraverso il sindacato di legittimità, l’inefficacia in relazione all’oggetto della controversia e ricondurre con propria pronuncia l’intervenuta risoluzione del contratto a inadempimento dell’ente pubblico che ha indebitamente rifiutato la prestazione dell’appaltatore e sanzionare tale inadempimento mediante le opportune statuizioni risarcitorie.
Non va, inoltre, sottaciuto che il provvedimento di risoluzione in danno disposto dall’Amministrazione non assume alcuna efficacia allorché interviene successivamente alla notifica della domanda di arbitrato proposta dall’appaltatore, relativamente alla richiesta di risoluzione del contratto, atteso che alla data della predetta domanda, se accolta, retroagiscono gli effetti della pronuncia della risoluzione medesima (Lodo Arbitrale 17 Aprile 1999 ,n. 49 in Arch. Giur. OO.PP.)
Posto quanto sopra, l’indagine deve essere rivolta ad accertare se esistono le condizioni della richiesta risoluzione da parte dell’impresa attrice.
In esito a tale accertamento, svolto al fine di cogliere nella successione logica e non solo cronologica dei fatti, il nesso causale delle inadempienze, nonché la loro gravità ed adeguatezza, il Collegio ritiene che nella fattispecie sussistano i presupposti per poter pronunciare, come richiesto dall’attrice, la risoluzione del contratto di appalto per colpa della Comunità Montana di YYY, per i seguenti motivi:
– la mancanza di adeguata cooperazione – in corso d’opera – della Stazione appaltante che, venendo meno al proprio obbligo contrattuale di porre tempestivo e risolutivo rimedio agli impedimenti che non avevano consentito una regolare prosecuzione dei lavori progettuali, non aveva garantito all’impresa appaltatrice la possibilità di compiere i lavori nei modi e termini stabiliti;
– il lungo periodo di inattività totale del cantiere, avvenuto a mezzo di un ordine di sospensione dei lavori che si era illegittimamente protratta oltre ogni ragionevole lasso di tempo, addirittura largamente superiore alla stessa durata contrattuale, e di una ingiustificata inerzia da parte della S.A. nell’intraprendere le iniziative e gli opportuni provvedimenti atti a rimediare alla situazione di fermo operativo, il che ha determinato gravi conseguenze economiche per l’appaltatore, tali da determinare una sensibile alterazione del sinallagma contrattuale.
Non vi è dubbio che in materia di appalti sussiste a carico del committente, come affermato dalla giurisprudenza e dagli stessi principi che informano siffatte obbligazioni, un dovere di cooperazione all’esecuzione del contratto, dovere che si estrinseca nella consegna dell’area, nella fornitura di adeguati progetti ed in generale nell’eliminazione di ogni eventuale ostacolo all’attività dell’appaltatore e nel porre in essere tutti gli adempimenti amministrativi per la completa e puntuale realizzazione dei lavori.Tale dovere di cooperazione assume una particolare rilevanza nell’appalto di opere pubbliche nel quale l’attività dell’appaltatore è vincolata al concorso della pubblica Amministrazione in modo più accentuato che negli appalti privati e si estrinseca, tra l’altro, nell’ottemperanza a regole di correttezza (art. 1175 cod. civ.) di buona fede nell’esecuzione (art. 1375 cod. civ.) .
In sostanza il rischio delle difficoltà dell’opus che fa capo all’appaltatore non può dipendere da fatto dell’amministrazione, le cui conseguenze ricadrebbero integralmente sullo stesso committente.
E’ apparso evidente che la responsabilità di quest’ultimo scaturisce da fatti compiuti nell’esecuzione dell’opera.
Ciò posto, il Collegio ritiene che la Comunità Montana sia venuta meno al dovere di cooperazione per aver disposto, in data 21.11.2005, una sospensione dei lavori necessaria ad ovviare a proprie sopravvenute esigenze che richiedevano la redazione di una perizia di variante tecnica e suppletiva che, però, veniva predisposta con notevole ritardo rispetto ai tempi tecnici ed amministrativi effettivamente occorrenti, in relazione alle modifiche poi apportate, alla importanza e natura dei lavori e alle condizioni contrattuali.
Va preliminarmente rilevato che nel verbale di sospensione dei lavori del 21 novembre 2005 la D.L. affermava testualmente “la necessità di redigere una perizia di variante tecnica, per cui i lavori non possono procedere con le necessarie regolarità e continuità tali da garantire la perfetta esecuzione dell’opera”, senza alcuna precisazione in ordine alle variazioni occorrenti.
Molto tempo dopo, nel corso del mese di settembre 2006, a distanza di circa 10 mesi dalla sospensione dei lavori, la S.A. predisponeva tardivamente la perizia de qua e nella relativa relazione tecnica giustificativa a corredo la D.L. illustrava le variazioni apportate, che sono così sintetizzabili: spostamento di una parete nel centro visita di Gizzeria, realizzazione di un vespaio in ghiaia con massetto in calcestruzzo per la parziale sistemazione esterna del centro visita di Gizzeria, di un piccolo muro di recinzione, sostituzione dei cassonetti degli infissi, demolizione di canne fumarie, rifacimento di intonaci, messa in opera di davanzali di maggior spessore, messa in opera di persiane in alluminio in luogo delle serrande avvolgibili, stralcio di alcune opere originariamente previste.
Le variazioni apportate assumevano un’incidenza economica del tutto marginale rispetto all’importo lordo contrattuale (€ 188.176,25), nella misura di € 10.712,42, a fronte di economie realizzate in eguale misura come risulta, per tabulas, dal quadro economico comparativo di confronto acquisito in atti.
In definitiva, trattasi di variazioni che per la loro natura tecnica ed economica non richiedevano certamente un complesso iter tecnico-amministrativo di perfezionamento con notevole assorbimento di tempo che, invero, la stazione appaltante aveva di fatto consumato in misura invero sproporzionata .
Non può sottacersi, peraltro, che nel corso della sospensione dei lavori l’impresa, già con atto di diffida notificato in data 10 marzo 2006, aveva (inutilmente) evidenziato alla Comunità Montana il perdurare della situazione di fermo operativo del cantiere e, quindi, la situazione di illegittimità della sospensione in corso invitando quest’ultima a disporre la contabilizzazione dei lavori e a garantire tutte le condizioni per l’immediata ripresa dei lavori con l’avviso che, in difetto, avrebbe promosso giudizio arbitrale per ottenere la risoluzione del contratto per grave inadempimento della controparte.
Non appare commendevole la circostanza che la stazione appaltante nel mese di settembre 2006, dopo un abnorme lasso di tempo di inattività di cantiere abbia sottoposto all’impresa attrice una perizia di variante tecnica del progetto originario che contemplava l’esecuzione di alcune nuove lavorazioni (e nuovi prezzi) senza alcun preventivo concordamento con l’impresa. Questa, a sua volta, con nota del 25.10.2006, non ha mancato di lamentare la tardiva acquisizione – avvenuta (solo ufficiosamente) in data 18.9.2006 – dei relativi elaborati tecnici ed economici, e di contestare l’incongruità dei suoi contenuti nonché il difetto della necessaria approvazione della Regione Calabria, (Ente Erogatore delle risorse finanziarie), circostanze queste che non consentivano di prevedere quando sarebbe stato possibile procedere alla concreta ripresa dei lavori.
Non ha alcuna rilevanza ai fini pratici che la Comunità Montana avesse comunque provveduto ad approvare, con deliberazione n. 135 del 29.9.2006 della Giunta, la suddetta perizia, pur in difetto di autorizzazione regionale e di preventivo accordo con l’impresa.
Né può sostenersi, come ha fatto la difesa della Comunità montana, che la perizia di variante non necessitava di approvazione regionale (dichiarandone, implicitamente, la mancata acquisizione) in quanto rimasta nell’importo originario posto a base di gara. Ciò in quanto le clausole del capitolato speciale di appalto (art. 33, c.6) stabilivano l’ammissibilità “…nell’esclusivo interesse dell’Amministrazione, delle varianti, in aumento o in diminuzione, finalizzate al miglioramento dell’opera e alla sua funzionalità……omissis…Le suddette varianti sono subordinate a preventiva autorizzazione della Regione Calabria”, con l’ineludibile conseguenza che anche le varianti senza incremento di spesa avrebbero dovuto essere sottoposte all’approvazione regionale.
Comunque, la Stazione Appaltante a fronte del rifiuto dell’impresa di manifestare (con la cit. nota del 25.10.2006) il proprio assenso alla perizia di variante, non adottava alcun provvedimento coercitivo al riguardo – probabilmente a ciò indotta dalla consapevolezza del difetto di regolare perfezionamento della perizia.
Peraltro, nonostante non fosse mai stata formalmente disposta una ripresa dei lavori con le modalità di cui all’art. 133, c. 6, d.P.R. 554/1999, in data 2 marzo 2007, a distanza di oltre cinque mesi dal manifestato dissenso dell’impresa, il cui cantiere continuava ad essere del tutto inattivo, la D.L. ha impartito l’ordine di servizio n. 1 con il quale ordinava, tra l’altro, il completamento delle lavorazioni previste nel progetto principale. Ciò assumeva il significato di una implicita volontà dell’Ente (mai ritualmente formalizzata) di “revocare” i contenuti della perizia già approvata, formalmente inconciliabile con l’impossibilità di procedere regolarmente alla esecuzione delle opere a perfetta regola d’arte (senza le necessarie integrazioni), secondo quanto dichiarato nel verbale di sospensione dei lavori del 21.11.2005. Tale circostanza è stata interpretata dalla ditta appaltatrice nella propria replica del 12.3.2007 come un tentativo della stazione appaltante di esperire una azione ritorsiva verso la manifestata volontà dell’impresa di risolvere il contratto per grave inadempimento.
Sulla base del delineato excursus il Collegio è dell’opinione che l’Ente convenuto non abbia prestato, in corso d’opera, la dovuta e tempestiva cooperazione all’appaltatrice, per far fronte alla situazione di stallo che si era venuta a determinare in cantiere, cagionando un illegittimo prolungamento della sospensione dei lavori rispetto ai tempi tecnici effettivamente necessari per far fronte alle proprie sopravvenute esigenze.
In realtà, le circostanze che avevano determinato la sospensione dei lavori e che nel verbale del 21.11.2005 erano state qualificate come causa di “forza maggiore” tali da non consentire l’esecuzione dei lavori a perfetta regola d’arte, si erano rivelate, in concreto (ma solo 10 mesi dopo), di natura del tutto diversa, atteso che i reali contenuti della perizia predisposta dalla stazione appaltante non consentono di ricondurre le integrazioni apportate e descritte nella relazione della D.L. a fatti obiettivi, non previsti né prevedibili con l’ordinaria diligenza. Infatti, l’applicazione della norma sulla sospensione ex art. 24 D.M. 145/2000 (sopravvenuto all’abrogato art. 30 D.P.R. n° 1063/1962, di identico contenuto) deve intendersi limitata alle sole ipotesi di esigenze tecniche ed obiettive della pubblica Amministrazione.
E’ principio consolidato in giurisprudenza (sia arbitrale che ordinaria) che sia gli eventi previsti dal primo comma del predetto articolo 24 Cap. Gen. App. <<causa di forza maggiore, condizioni climatologiche ed altre simili circostanze naturali>>, che quelli indicati al quarto comma <<ragioni di pubblico interesse o di necessità>>, agiscono come limiti obiettivi alla facoltà dell’Amministrazione di disporre sospensioni temporanee nell’esecuzione dei lavori, ma solo a condizione che entrambe queste categorie di eventi siano impreviste ed imprevedibili da parte dell’Amministrazione che abbia fatto uso dell’ordinaria diligenza. In caso contrario, la sospensione dei lavori è manifestamente illegittima e determina l’obbligo per la Stazione Appaltante di risarcire l’impresa dei maggiori oneri sostenuti nel periodo di inattività del cantiere.
E’ ius receptum, infatti, che in tema di appalto di opere pubbliche, «le ragioni di pubblico interesse o necessità» che, ai sensi dell’art. 30, 2º comma, d.p.r. 1063/1962, legittimano l’ordine di sospensione dei lavori vanno identificate in esigenze pubbliche oggettive e sopravvenute non previste (né prevedibili) dall’amministrazione con l’uso dell’ordinaria diligenza, così che esse non possono essere invocate al fine di porre rimedio a negligenza o imprevidenza dell’amministrazione medesima; (in tali termini, Cass., sez. I, 11.04.2002, n. 5135; v. anche, ex plurimis, C. App. Roma, 22.05.1989): “la sospensione dei lavori è legittima quando è causata da fatti obiettivi, non previsti né prevedibili con l’ordinaria diligenza; pertanto l’applicazione dell’art. 30 … deve intendersi limitata alle ipotesi di esigenze tecniche ed obiettive della p.a., essendo la facoltà di sospensione legata a tali esigenze, la cui sussistenza opera in concreto come limite della facoltà stessa, al di là della quale la sospensione diventa illegittima ed impegna la responsabilità della p.a., con l’ulteriore precisazione che tali illegittimità e responsabilità sussistono anche quando la sospensione dipenda da un fatto proprio dell’amministrazione, e cioè dove essa tenda ad ovviare a negligenze proprie, ovvero a mancate predisposizioni che ad essa facevano carico, se causate da fatti previsti o prevedibili…”; v., ancora, lodo 23.6.2000, in Arch. Giur. oo.pp., 2001, 958: “La sospensione lavori può considerarsi legittima solo quando sia giustificata da fatti obiettivi non imputabili all’amministrazione committente e da esigenze non previste e prevedibili con l’ordinaria diligenza, mentre è illegittima allorché sia disposta o si protragga oltre il necessario per un fatto proprio dell’amministrazione stessa…come quando intenda ovviare a negligenze proprie o supplire a mancate predisposizioni che aveva il dovere di compiere tempestivamente”.
E’, quindi, evidente che, non potendosi riconoscere l’applicabilità dell’art. 24, 1° e 4° comma, del cit. Cap. Gen. App. (D.M. 145/2000), la sospensione dei lavori in parola, seppure prospettata come determinata da cause di forza maggiore e come tale inizialmente ritenuta dall’appaltatore (in difetto di specifica individuazione delle opere ritenute necessarie alla prosecuzione dei lavori), è da ritenere illegittima. Comunque, anche se volesse ipotizzarsi, in teoria, la iniziale legittimità della sospensione, è in ogni caso da ritenere illegittimo il suo prolungamento a decorrere dalla data in cui, presumibilmente e ragionevolmente, l’Ente appaltante avrebbe dovuto concludere l’iter tecnico-amministrativo per il perfezionamento della perizia di variante, tenuto conto delle complessità ed importanza delle modifiche da introdurre al progetto, secondo quanto espressamente previsto all’art. 24, c. 2, del cit. Cap. Gen. App.( D.M. 145/2000). Ovviamente, l’illegittimità del prolungamento della sospensione rileva indipendentemente dalla sua maggior durata e/o dal superamento di un termine massimo prestabilito.
In definitiva, la Stazione Appaltante si è resa responsabile, per far fronte alle proprie alle proprie esigenze, della prolungata dilazione della sospensione inibendo così il regolare svolgimento dei lavori, con la conseguenza che è non stata consentita all’appaltatore la possibilità di compiere le opere nei modi e termini pattuiti.
E’, infatti, principio di carattere generale che la P.A. incorre in responsabilità quando, non prestando la doverosa collaborazione all’appaltatore per la riuscita dell’opera medesima, trascuri di rimediare tempestivamente agli ostacoli che provocano ingiustificate difficoltà nell’esecuzione dei lavori a danno dell’appaltatore.
Questi, infatti, nel valutare la convenienza a partecipare alla gara e offrire un certo ribasso, ha fatto affidamento sul termine di ultimazione fissato nel capitolato e presupponente il pronto raggiungimento di quegli accordi e la tempestiva rimozione della difficoltà insorte. Sicché, anche quando si tratti di impedimenti riconducibili a fatto di Enti terzi, occorre procedere ad un concreto apprezzamento della loro prevedibilità, evitabilità e superabilità, alla stregua dello sforzo diligente dovuto, onde non può ritenersi esentato da responsabilità il debitore che abbia assunto l’obbligazione di fronte alla prevedibilità dell’atto impeditivo, ovvero che non si adoperi diligentemente per garantire le condizioni necessarie all’esecuzione della prestazione o per procurare i mezzi dell’adempimento, ovvero, infine, che non ponga in essere uno sforzo diligente per ottenere, attraverso le apposite procedure, la caducazione dei fatti impeditivi.
In definitiva, tra le obbligazioni scaturenti dal contratto di appalto vi è quella gravante sulla parte committente di assicurare all’appaltatore, fin dall’inizio del rapporto, e per tutta la durata di questo, la possibilità giuridica e concreta di eseguire il lavoro affidatogli, così che all’inadempimento di tale obbligo corrisponde la responsabilità per i maggiori oneri eventualmente sopportati dall’impresa, ai sensi degli artt. 1453 e seguenti Codice Civile ( Cass. 22 maggio 1998 n. 5112).
Il Collegio osserva che non risponde alle regole di buona amministrazione ed ai principi di buona fede che devono regolare i rapporti contrattuali, ovviare alle proprie inadempienze e/o esigenze attraverso sospensioni dei lavori o il non adottare tutti i formali provvedimenti e/o acquisire autorizzazioni idonee a consentire alla controparte contrattuale di compiere i lavori.
Da tali comportamenti omissivi si evidenzia il difetto funzionale della causa del contratto connesso al prodursi del sopravvenuto squilibrio sinallagmatico delle prestazioni rese dall’appaltatore che, comportando un notevole stravolgimento dei tempi di esecuzione, è tale da giustificare la risoluzione per fatto dell’Amministrazione.
Le considerazioni innanzi svolte pongono in evidenza che l’Ente appaltante è incorso in una serie di inadempienze che, nel loro complesso, avuto riguardo all’interesse dell’impresa appaltatrice, sono tali da giustificare la risoluzione contrattuale, in quanto hanno notevolmente inciso, a danno dell’impresa, il sinallagma contrattuale in relazione sia all’economicità del contratto, sia ai tempi di espletamento, protrattisi oltre ogni ragionevole limite.
Non valgono, pertanto, a sollevare l’Ente appaltante dalle proprie responsabilità, le circostanze rappresentate nel provvedimento risolutorio adottato dalla Giunta nell’atto deliberativo n. 80 del 12.6.2007, consistenti : a) nell’aver l’impresa manifestato il proprio dissenso in riferimento alla perizia di variante;
b) nell’essersi resa inadempiente per l’inosservanza agli ordini di servizio n° 1 e 2 emessi dalla D.L., rispettivamente, in data 2.3.2007 e 6.4.2007, con cui venivano impartite istruzioni per la ripresa dei lavori e l’eliminazione di alcune difformità delle opere, appositamente segnalate, rispetto al progetto.
Il Collegio ha già rilevato che l’approvazione della perizia di variante (contemplante anche la formazione di nuovi prezzi) ad opera della Stazione Appaltante, era avvenuta in difetto di previo contraddittorio inter partes. E, comunque, al rifiuto di sottoscrizione della perizia da parte dell’impresa, motivato dalla incongruità dei relativi contenuti, dai mancati propedeutici accordi e dalla mancata (preventiva) acquisizione dell’autorizzazione regionale, non era seguita, ad opera della medesima Amministrazione, un’azione coercitiva pure potenzialmente possibile, considerato che, di fatto, quest’ultima aveva mantenuto un comportamento inerte, probabilmente per difetto della predetta autorizzazione. Tale comportamento è durato fino a quando, pur in difetto di un verbale di ripresa ai sensi dell’art. 165 del Regolamento 554/1999, secondo quanto espressamente previsto all’art. 133, comma 8, venivano emessi gli ordini di servizio n° 1 e 2, a distanza di notevole tempo dalla data in cui l’impresa aveva già manifestato, con nota del 25.10.2006, la propria volontà di risolvere il contratto.
Pertanto, il ritardo nell’esecuzione delle opere è di fatto riconducibile a gravi inadempimenti dell’appaltante, il quale aveva anche attuato un comportamento contraddittorio: da un lato, infatti, disponeva la dilazione dei tempi contrattuali, motivata sulla base di una perizia di variante ritenuta “necessaria”; dall’altro, la perizia, formalmente approvata, pur in difetto di formale consenso dell’impresa, veniva poi di fatto disattesa, come si evince dagli ordini di servizio n° 1 e 2.
Quanto, poi, alle asserite difformità delle opere rispetto alle previsioni di progetto, il Collegio ritiene che esse siano di lievissima entità, sotto il profilo tecnico ed economico.
Al riguardo, la difesa attorea ha confermato la validità delle eccezioni sollevate dall’impresa nel verbale di constatazione del lavori del 9.5.2007 evidenziando che le “difformità” contestate erano state oggetto di concordamento preventivo inter partes, con particolare riguardo agli avvolgibili in pvc (in luogo di quelli in acciaio microforato) e dello scaldacqua (da lt 50 anziché da lt 80). Le medesime erano poi state rilevate in contraddittorio e contabilizzate sulla base dei corrispettivi contrattuali, per cui le contestate difformità avrebbero potuto eventualmente essere oggetto di corrispondenti (congrue) detrazioni contabili, come più volte evidenziato dall’impresa. Analogo criterio avrebbe potuto essere seguito per eventuali incompletezze relative ai bagni per sanitari, infissi, vetrate sopraluce dei portoni.
Il Collegio osserva, al riguardo, che l’Ente Appaltante, attraverso il suo comportamento concludente, ha di fatto confermato le deduzioni avversarie, considerato che dagli atti prodotti in giudizio dalla Comunità Montana – in particolare la determinazione n. 270 del 27.8.2008 con cui il dirigente dell’Ufficio Tecnico Comunale approvava lo stato finale dei lavori – è emerso che la stazione appaltante ha integralmente accettato le opere oggetto di contestazione operando, ove ritenuto opportuno, le relative detrazioni contabili, per un importo complessivo di € 2.730,29, senza peraltro sollevare altre contestazioni in ordine all’esecuzione materiale delle opere. Non si rilevano, quindi, a carico dell’impresa i dedotti inadempimenti contrattuali.
L’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto inoltrata dell’appaltatore appare assorbente e comporta l’inefficacia del provvedimento risolutivo adottato dalla Comunità Montana con deliberazione n° 80 del 12.6.2007 dell’organo di Giunta. Da ciò consegue anche la reiezione della domanda riconvenzionale proposta dalla Comunità Montana e delle relative pretese che, peraltro, si appalesano generiche e non suffragate da valide argomentazioni tecniche e giuridiche. Compete, conseguentemente, all’impresa attrice, il diritto al risarcimento dei danni a diverso titolo rivendicati con i quesiti n° 1 e n° 2 della domanda arbitrale. [omissis]
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