Tra le clamorose aberrazioni del nuovo codice degli appalti pubblici (D. Lgs n° 50/2016) non può essere sottaciuto quanto previsto dal legislatore in materia di definizione delle controversie eventualmente attribuite alla competenza di un Collegio Arbitrale, nella parte in cui è sancita la “incompatibilità” ad assumere il ruolo di arbitro – anche per i soggetti designati dalle parti – a professionisti che hanno una consolidata esperienza in materia.
Infatti, i soggetti che non possono essere nominati arbitri sono elencati al comma 6 dell’art. 209 e, tra questi, alla let. b) sono ricompresi anche “coloro che nell’ultimo triennio hanno esercitato le funzioni di arbitro di parte o di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dal presente articolo, ad eccezione delle ipotesi in cui l’esercizio della difesa costituisca adempimento di dovere d’ufficio del difensore dipendente pubblico”.
Detta novellata disciplina costituisce una estensione del medesimo divieto operante nel codice previgente (solo) per la nomina del Presidente del Collegio Arbitrale. Infatti, l’art. 241, comma 5, del D. Lgs n° 163/2006 stabiliva che “il Presidente del collegio arbitrale è scelto dalle parti o sul loro mandato dagli arbitri di parte, tra soggetti di particolare esperienza nella materia oggetto del contratto cui I’arbitrato si riferisce, muniti di precipui requisiti di indipendenza, e comunque tra coloro che nell’ultimo triennio non hanno esercitato le funzioni di arbitro di parte o di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dal presente articolo, ad eccezione delle ipotesi in cui l’esercizio della difesa costituisca adempimento del dovere d’ufficio del difensore dipendente pubblico”.
Premesso che, in relazione al citato comma 5 dell’art. 241 del codice dei contratti di recente abrogazione, è tuttora pendente il giudizio di legittimità costituzionale (R.O. n° 67/14) promosso su iniziativa di un Collegio Arbitrale, la novella disciplina crea una obiettiva contraddizione con quanto previsto al comma 4 del citato art. 209 del D. Lgs n. 50/2016 a termine del quale “Ciascuna delle parti, nella domanda di arbitrato o nell’atto di resistenza alla domanda, designa l’arbitro di propria competenza scelto tra soggetti di provata esperienza e indipendenza nella materia oggetto del contratto cui l’arbitrato si riferisce”.
Infatti, se da una parte il nuovo codice riconosce il libero diritto delle parti – com’è ovvio che sia – alla designazione di professionisti di “provata esperienza” in materia, dall’altra esclude la possibilità di nominare coloro i quali abbiano (più) frequentemente svolto il ruolo di arbitro “di parte” (rectius nominato dalla parte), con la conseguenza che ciascuna parte sarebbe necessariamente costretta a ripiegare su soggetti che solo occasionalmente (al massimo una volta ogni quattro anni, tenuto conto che in genere il giudizio arbitrale si conclude circa un anno dopo la nomina) abbiano svolto/svolgano detta funzione (SIC!).
Ne deriva l’obiettiva difficoltà delle parti in lite (soprattutto di quella privata) di discernere, nell’ambito di una materia di particolare complessità tecnica e giuridica, quali altre forme siano idonee ad assicurare una “provata esperienza” superiore a quella derivante da una consolidata pratica di settore.
La limitazione imposta dalla nuova normativa è quindi paradossalmente destinata ad un progressivo ed ineluttabile svilimento dell’arbitrato in materia di appalti pubblici perché, di fatto, normativamente e contraddittoriamente affidato alla competenza di soggetti a cui è impedita una specializzazione fondata (anche) sulla esperienza derivante da iudicis nominatio.
Peraltro, la novità introdotta dal codice è in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, almeno sotto il profilo della violazione del canone di ragionevolezza.
Nessuna norma può infatti introdurre diversificati regimi di preclusione a determinate attività per limitate categorie di soggetti, a meno che la disparità di trattamento sia giustificata dall’esigenza di tutelare altri principi costituzionali di pari grado.
Nella disposizione in esame non si riscontra alcun principio costituzionale da tutelare, né tantomeno qualsiasi altra plausibile motivazione che possa giustificare la scelta del legislatore delegato.
E’ infatti ignota la ragione per la quale lo svolgimento di incarichi di difensore od arbitro di parte in giudizi arbitrali (anche con parti diverse) debba essere considerata quale fattispecie di incapacità legale ad esercitare l’incarico di arbitro di collegio arbitrale in altra autonoma e separata controversia.
La disposizione normativa si appalesa illogica e contraddittoria, poiché si richiede l’individuazione di arbitri di “provata esperienza” nella materia oggetto d’arbitrato e, quindi, con valorizzazione della precedente esperienza professionale e dei precedenti ruoli svolti nei contenziosi arbitrali in materia di contratti pubblici e, nello stesso tempo, si vieta ai soggetti già esperti di consolidare/conservare la pratica sinora maturata e, ancora più paradossalmente, si vieta che anche altri soggetti possano eventualmente acquisire – in un ragionevole intervallo di tempo – una esperienza commisurata all’importanza e alla complessità tecnico-giuridica di controversie arbitrali in materia di appalti.
A ben vedere la norma introdotta dal nuovo codice degli appalti è palesemente discriminatoria, anche sotto altri profili.
Infatti, la (nuova) fattispecie di incompatibilità non ha efficacia generale ed erga omnes perché non osta la nomina, ad arbitro di parte, degli avvocati dipendenti pubblici (quali ad esempio i membri delle avvocature regionali e locali o di altri professionisti dipendenti pubblici) e dei professionisti che nel triennio abbiano svolto esclusivamente incarichi di presidente di collegi arbitrali.
Sicché sotto tale profilo il divieto, lungi dal garantire l’indipendenza degli arbitri, risulta ancor più illogico ed assurdo poiché l’ipotesi di incapacità legale non è nemmeno correlata allo svolgimento di precedenti attività arbitrali sic et simpliciter, ma solamente a ruoli circoscritti (arbitro di parte e difensore), peraltro espletabili da determinate categorie di soggetti (dipendenti pubblici).
Né in tale ottica può ritenersi che lo svolgimento di incarichi quale arbitro di parte o di difensori incida di per sé sull’indipendenza di un incarico arbitrale (sia derivante da una parte che presidenziale), poiché altrimenti la norma non avrebbe previsto la deroga per i dipendenti pubblici, i quali, per dovere d’ufficio, sono obbligati a tutelare gli interessi dell’Amministrazione e dovrebbero quindi risultare privi a fortiori del requisito di indipendenza richiesto dalla norma.
Di conseguenza la previsione non mira nemmeno a favorire l’indipendenza delle nomine, ma semmai a restringere l’ambito dei soggetti nominabili senza alcun criterio logico, escludendo solo i liberi professionisti (e non i dipendenti pubblici) che hanno ricoperto nel triennio incarichi arbitrali e che per assurdo, alla luce della prima parte dell’art. 209, co.4, dovrebbero invece essere i soggetti più qualificati a rivestire l’incarico.
In definitiva, considerato che il divieto non opera nei casi in cui l’esercizio della difesa svolto negli ultimi tre anni “…. costituisca adempimento di dovere d’ufficio del difensore dipendente pubblico” ne deriva che la parte pubblica è avvantaggiata dalla possibilità di attingere, per la nomina dell’arbitro di propria designazione, da una più vasta platea di professionisti la cui esperienza deriva, quantomeno, da una consolidata pratica “forense” in materia di controversie arbitrali, che è invece preclusa all’arbitro designato dal privato.
La previsione normativa, del tutto discriminatoria, irrazionale e sproporzionata, non porta solo frustrare ed a ledere il ruolo di arbitro di parte e di difensore di giudizi arbitrali, sanzionandolo con il divieto di assumere più di un incarico arbitrale ogni quattro anni circa, ma è anche ineludibilmente destinata ad accentuare lo squilibrio giuridico nei rapporti tra la parte pubblica ed il privato – a svantaggio di quest’ultimo – in linea con i discutibili effetti di altre novità (anche di natura abrogativa di previgenti disposizioni) introdotte dal nuovo codice degli appalti che, lungi dall’essere improntate a soddisfare i principi di efficacia, correttezza e non discriminazione enunciati all’art. 2 del D. Lgs n. 50/2016, sembrano piuttosto mirate a rimediare alla consapevole genetica incapacità dell’apparato burocratico-amministrativo pubblico di garantire il proprio efficace funzionamento.
Purtroppo, alcune novità introdotte dal nuovo codice sembrano riflettere la volontà del legislatore di alterare il giusto equilibrio del rapporto contrattuale tra pubblico e privato che pone il committente pubblico, forte della propria posizione monopolistica negli atti di predisposizione della disciplina degli appalti, in una situazione di netta preminenza a discapito di una sensibile riduzione del grado di libertà contrattuale dell’appaltatore e la conseguente determinazione di una disuguaglianza giuridica tra le volontà delle parti in cui, paradossalmente, il contratto di appalto rischia di allontanarsi sempre più dalla sua innata natura giuridica di contratto di lavoro autonomo verso una forma di lavoro pseudo-subordinato.
Situazioni che contrastano, evidentemente, con il principio di uguaglianza delle parti nella costituzione del rapporto che si è andato consolidando negli ultimi decenni attraverso la conclamata affermazione della natura privatistica dell’appalto di opere pubbliche alla stregua di un negozio iure privatorum, ammessa pacificamente sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza.
A fronte dei condivisibili principi enunciati all’art. 2 del nuovo codice dei contratti è dunque inevitabile constatare l’incoerente impronta del legislatore verso una spropositata volontà di tutela pre-ordinata della Pubblica Amministrazione che, nella generale consapevolezza di una sua fisiologica inefficienza, vuole essere tenuta indenne da eventuali responsabilità nelle frequenti circostanze, ormai patologiche, che si sono ripetute sull’intero territorio nazionale senza soluzioni di continuità negli anni passati e che hanno dato luogo a controversie giudiziali in cui la committenza è rimasta, spesso, soccombente in tutte le sedi giurisdizionali.
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